L’Agenzia delle Entrate ha avanzato l’ipotesi di introdurre nel redditometro le spese per gli amici a quattro zampe. Avere un cane o un gatto, infatti, sarebbe segno di ricchezza. Le proteste, come era facile immaginare, non hanno tardato ad arrivare anche perché la presenza di un animale non è certamente un lusso, tanto più che assicurarne il benessere non è solo una dimostrazione d’affetto, ma è previsto anche dalla nostra legislazione.
Come spiega Marco Melosi, presidente dell’Associazione nazionale medici veterinari (Anmvi):
Per la tutela animale l’Italia vanta una legislazione che offre a questi “esseri senzienti” le più alte garanzie di tutela penale. Si mobilitano ministri e parlamentari, si sprecano le affermazioni di principio, si scomoda persino il Patrono d’Italia. Ma è una ipocrisia. Il Governo italiano continua a lucrare sugli animali da compagnia, a considerare il cavallo un indicatore nel reddito, a ridurre le detrazioni sulle spese veterinarie per cani e gatti, ad aumentare le tasse portando l’Iva ai massimi livelli storici (21%) sul loro cibo e sulle cure mediche degli animali da compagnia, inclusi furetti, conigli e criceti che sempre più numerosi popolano le case degli italiani.
E contro la decisione dell’Agenzia delle Entrate, si schierano anche il ministro del Turismo Michela Brambilla e il sottosegretario alla Salute Francesca Martini, che sostengono come la promozione delle cure veterinarie sia al contrario, tra gli obiettivi di un paese civile. La classificazione delle spese veterinarie come un indice di ricchezza è un grave errore culturale e sociale, anche perché gli animali domestici, sono considerati, da chi li possiede, al pari di veri e propri componenti della famiglia.
Sono d’accordo con il Ministro Brambilla, quando dice che la cultura della prevenzione dal punto di vista sanitario deve essere promossa a tutti i livelli, perché segno di giusta evoluzione culturale che deve caratterizzare un grande paese civile come il nostro.
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